L'Accordo di Mirafiori obbliga la Cgil e il mondo del lavoro a interrogarsi sulla fase e sul futuro.
Un Accordo regressivo che limita diritti inederogabili ed esclude la Cgil dalla fabbrica con l'assenso degli altri sindacati apre una dialettica nuova.
Impossibile per me non essere solidale con la Fiom e i lavoratori sotto ricatto, ma sono consapevole che va fatto molto di più,
innanzi tutto va ragionato perchè si è giunti a questo punto.
Di seguito troverete un documento al quale ho contribuito, interessante sarebbe che riuscissimo ad aprire, anche su questo blog, una discussione costruttiva su un nodo che va affrontato e risolto.
Alessio De Luca
Roma 11 Gennaio 2011
L’accordo di Mirafiori è un attacco ai diritti di tutti i lavoratori del Paese. Si apra un confronto vero in CGIL per una risposta all’altezza della fase.
L’accordo firmato a Mirafiori è un vero e proprio manifesto politico e sindacale che indica come unico modello possibile di sviluppo e competizione la scomparsa dei diritti democratici del singolo lavoratore, del diritto di sciopero e, in definitiva, la sterilizzazione del sindacato e delle rappresentanze elette (i lavoratori Fiat non potranno più votare per l’elezioni delle RSU; al loro posto le segreterie nazionali nomineranno dall’alto RSA che non risponderanno ai lavoratori). E’ un attacco non alla Fiom, non a questo o quel gruppo dirigente, ma alla democrazia, alla nostra idea di sindacato, alla CGIL tutta.
È la punta più avanzata di un disegno politico chiaro che si completa nelle strategie del Governo, proponendo un’uscita fortemente ideologica e da destra alla grave crisi sociale che attraversa il Paese. Non è questione di firma tecnica (che tra l’altro sarebbe comunque giuridicamente vincolante e in palese violazione con lo Statuto della CGIL), il problema che ci si pone non è tattico ma sostanziale: ogni determinazione presente in quei testi (che andrebbero letti e diffusi prima ancora di commentarli!) è una bomba ad orologeria per i lavoratori di tutto il Paese, per tutte le categorie, per chi un lavoro c’è l’ha o lo ha perso.
La risposta deve essere politica, sindacale e culturale. E deve essere di tutti. Non si può lasciare ai soli lavoratori della Fiat sotto ricatto o ai soli lavoratori metalmeccanici l’onere di una battaglia che investe l’intero mondo del lavoro. Perché il nuovo quadro ci propone in termini drammatici il tema della capacità di governare le trasformazioni economiche e produttive, in un sistema globale, senza ridurre tutele e diritti, ma anzi ampliandoli ed innovandoli. Che è poi la sfida che non da oggi ha di fronte il movimento sindacale e la sinistra politica e sociale in Europa e nel nostro Paese.
Vengono cioè al pettine nodi strutturali del nostro sistema produttivo, sociale e delle relazioni industriali; nodi che il manager Fiat disvela brutalmente ma certo non ha generato lui. L ’ultimo congresso della CGIL non è stato in grado di affrontare questo terreno di analisi e proposta, e le contraddizioni si ripropongono oggi in tutta la loro drammaticità. Tutti siamo chiamati ad un salto di qualità.
Se infatti l’accordo di Mirafiori dimostra l’inadeguatezza della recente riforma del modello contrattuale, che già è costata ai lavoratori perdita di salario reale (oltre il 40% dell’inflazione dell’ultimo anno è legata ai costi dei beni energetici) e la possibile derogabilità di numerosi istituti contrattuali fondamentali, esso è soprattutto la prova di come il tema di garantire contratti collettivi realmente erga omnes – oggi anche indipendentemente dall’adesione o meno a questa o quella associazione datoriale – è interamente davanti a noi. Che se un bilancio va fatto, esso deve essere complessivo e riguardare un’intera fase della nostra azione sindacale per cui tutti siamo chiamati ad un di più di iniziativa, guardando alla situazione nazionale, ma soprattutto europea. E’ il tema di come costruire una vera Europa sociale e politica che indirizza politiche industriali e occupazionali valorizzando la dimensione della cittadinanza; è il tema dei contratti collettivi di lavoro che devono avere sempre più dimensione sovra nazionale con reali cessioni di sovranità da parte delle centrali sindacali nazionali. E’ insomma il tema di quale modello di sviluppo su scala continentale e globale, premessa per riattivare una mobilità sociale verso l’alto per tutte le fasce più deboli della società. E’ il tema di cosa si intende per produttività: perché in Italia è calata la produttività complessiva, ma non quella del fattore lavoro (dati Banca centrale europea rapporto 2010). E’ questo nessuno lo dice, accettando un terreno di confronto in gran parte falso. I lavoratori italiani sono tra i più produttivi a livello Europeo, lavorano di più in termini quantitativi e temporali dei loro colleghi tedeschi, francesi ed inglesi, il loro orario di lavoro è superiore mediamente di 3 ore settimanali. La produttività complessiva è minore, perché minore è il contenuto tecnologico e di innovazione presente nella struttura produttiva e nel ciclo dei prodotti. La produttività del capitale è infatti inferiore del 35% alla media europea e questo produce un costo del lavoro per unità di prodotto relativamente più alto. Detta in poche parole: si sfrutta il lavoro di più in termini proporzionali perché costa meno e non si investe in nuovi macchinari, in innovazione di prodotto e processo. La produttività da investimenti mancati e non fatti (magari con le risorse dirottate in beni finanziari, immobiliari o in stipendi ai manager superiori anche mille volte rispetto a quelli dei propri dipendenti) è il tema vero ed è – in sintesi – il tema di una competizione basata sulla qualità e sul valore aggiunto. Il caso Fiat è emblematico: si concorre non con il centro ricerca giapponese per i nuovi materiali o con i laboratori di design tedesco; si compete con il costo del lavoro dei serbi o dei polacchi.
La crisi oggi ha quindi già portato i “barbari ben oltre la porta di casa”: ben 3 milioni di italiani sono sotto la soglia di povertà (+15% negli ultimi due anni) e 7 sono prossimi a quella di povertà relativa (+19%); la disoccupazione giovanile ha raggiunto la cifra record del 30%; centinaia di migliaia di lavoratori precari hanno perso il posto di lavoro nelle aziende private e nelle pubbliche amministrazioni, dopo aver consentito guadagni stratosferici o il mantenimento di servizi essenziali di pubblica utilità. Migliaia di giovani sono oggi condannati ad un’esistenza di precarietà esistenziale. Di questo sono ben consapevoli gli stessi studenti che, in moltissimi, hanno colto un legame evidente tra la riforma Gelmini, l’aumento delle tasse universitarie e un mercato del lavoro che li consegna ad un sistema produttivo e sociale ingiusto. Oltre 200 mila dipendenti a tempo indeterminato hanno perso il posto di lavoro, godendo esclusivamente e per soli pochi mesi dell’indennità di disoccupazione e altre centinaia di migliaia di loro hanno subito pesanti riduzioni salariali a seguito degli ammortizzatori sociali; 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici rimarranno per i prossimi anni privi di un rinnovo contrattuale; milioni di lavoratori e pensionati pagano la crisi con una riduzione evidente della loro capacità di spesa, con un fisco che grava su di loro per oltre l’80% del gettito e con una riduzione evidente dei servizi sociali; il welfare locale, già pesantemente “falciato” dai tagli nel 2008 e 2009, si ridurrà ulteriormente quest’anno, colpendo le famiglie più povere, gli anziani e i soggetti socialmente più deboli.
A tutto ciò si somma l’attacco alla democrazia, al diritto al dissenso, allo stesso sistema di rappresentanza collettiva, mettendo in discussione la funzione dei corpi intermedi (la stessa Confindustria, dopo l’uscita Fiat e la prossima uscita di Fincantieri, dovrebbe prendere atto che una volta intrapresa la strade delle deroghe, vi è sempre qualcuno disposto a fare di più!) e la possibilità per i lavoratori di decidere da chi farsi rappresentare.
Siamo alla democrazia come farsa, al referendum usato come clava e ricatto, al riconoscimento del sindacato solo quando si fa garante verso l’azienda e controllore dei lavoratori. In un momento in cui la democrazia è minacciata dai continui attacchi alla libertà di informazione e al pluralismo culturale, in cui i partiti politici soffrono di una crisi di rappresentatività senza precedenti, quello che si delinea è un vero e proprio modello corporativo, reazionario e autoritario che insegue un’idea povera di sviluppo e dove la libera organizzazione e dialettica tra idee e interessi diversi non è vista come il sale della democrazia moderna, ma un problema da risolvere. Siamo preoccupati dell’involuzione che questo comporta per la stesse CISL e UIL e le sue categorie, prossime - qualora si generalizzasse tale logica – ad una vera e propria mutazione genetica dove la rappresentanza si costruisce fuori dai luoghi di lavoro (enti bilaterali) o esclusivamente tramite riconoscimento delle controparti. Una mutazione con cui dovremmo concretamente fare i conti in termini sia rivendicativi che di pratica negoziale.
C’è, allora, l’inderogabile necessità di dare una lettura omogenea agli avvenimenti, non si può proseguire nel ritenere gli accadimenti e le scelte di imprese, sindacati e governo eventi caotici e scollegati. Non possiamo ritenere l’agire di Marchionne scollegato dalle scelte ideologiche presenti nel collegato lavoro. L’annullare con una decadenza le possibili rivendicazioni dei precari sa di ritorno agli anni cinquanta. La riduzione dei finanziamenti alla cultura sono atto gravissimo nei confronti di un intero sistema, atto che non tocca solo principi fondamentali come la libertà di espressione ma anche lo sviluppo tecnologico ed economico.
La nostra categoria è toccata pesantemente dai molti provvedimenti del governo, ciò che i rappresentati da Slc stanno subendo o rischiano di subire (pensiamo al mondo dei call center o degli appalti) non è molto diverso da ciò che subiscono oggi i metalmeccanici della Fiat.
Serve allora riscoprire il significato profondo del concetto di solidarietà.
Serve una discussione dentro la CGIL senza rinchiudersi in facili recinti, burocratismi o dissapori personali, con l’obiettivo di fare uno sforzo comune da parte di tutti e ricercare una risposta all’altezza della fase nuova, inedita e rischiosa, che il Paese sta attraversando.
Serve contrastare l’accordo di Mirafiori delineando al contempo una proposta chiara, precisa, fatta di pochi punti, con l’ambizione di incidere e non di “testimoniare”: riconquista di un modello contrattuale valido per tutti i lavoratori, dando piena attuazione agli articoli 39, 40 e 41 della Costituzione e prevedendo un salario minimo legale o un reddito di cittadinanza eventualmente anche per legge, con diritti individuali indisponibili a tutte le parti collettive; di conseguenza il riconoscimento di un sistema di reale rappresentatività e reale democrazia dei lavoratori, valido per tutte le imprese, che permetta sempre – in caso di divisioni tra sindacati rappresentativi o anche se richiesto da una minoranza di lavoratori – di dare, tramite referendum, l’ultima parola ai diretti interessati al singolo accordo. Occorre una manovra straordinaria per la stabilizzazione dei precari nelle pubbliche amministrazioni, nella scuola, università e ricerca; il collegato lavoro va “smontato” con una forte e coordinata azione sia contrattuale (nazionale e aziendale) che vertenziale, con l’obbiettivo di giungere ad una riforma complessiva del mercato del lavoro che riduca tipologie atipiche e il dumping salariale e normativo che queste esercitano nei confronti del contratto a tempo indeterminato. Occorre una riforma contrattuale e fiscale che restituisca potere d’acquisto a lavoratori e pensionati, con una patrimoniale cui entrate vanno finalizzate al sostegno dei redditi.
Su questo la CGIL deve avviare da subito una campagna di mobilitazione in tutti i luoghi di lavoro, fare una vera e proprio campagna di informazione contro la strategia del silenzio e il “chiacchiericcio discorsivo” operato dai grandi media, e tornare protagonista dell’interlocuzione con i partiti politici, la società civile, i movimenti - a partire da quello degli studenti - dichiarando già ora come l’approdo di tale percorso rivendicativo sia una giornata di sciopero generale. Da preparare bene, da far diventare un momento di protesta e proposta che parli all’intero paese, all’Italia migliore, ai giovani. Questo a partire dalla giornata di mobilitazione e di lotta proclamata già per il 28 gennaio prossimo dai compagni della FIOM, che deve per tanto inserirsi in questo percorso.
Una volta avremmo detto “socialismo o barbarie” oggi, più moderatamente, ci accontenteremmo di “diritti minimi e libertà di decidere o barbarie”.
L’accordo di Mirafiori è un attacco ai diritti di tutti i lavoratori del Paese. Si apra un confronto vero in CGIL per una risposta all’altezza della fase.
L’accordo firmato a Mirafiori è un vero e proprio manifesto politico e sindacale che indica come unico modello possibile di sviluppo e competizione la scomparsa dei diritti democratici del singolo lavoratore, del diritto di sciopero e, in definitiva, la sterilizzazione del sindacato e delle rappresentanze elette (i lavoratori Fiat non potranno più votare per l’elezioni delle RSU; al loro posto le segreterie nazionali nomineranno dall’alto RSA che non risponderanno ai lavoratori). E’ un attacco non alla Fiom, non a questo o quel gruppo dirigente, ma alla democrazia, alla nostra idea di sindacato, alla CGIL tutta.
È la punta più avanzata di un disegno politico chiaro che si completa nelle strategie del Governo, proponendo un’uscita fortemente ideologica e da destra alla grave crisi sociale che attraversa il Paese. Non è questione di firma tecnica (che tra l’altro sarebbe comunque giuridicamente vincolante e in palese violazione con lo Statuto della CGIL), il problema che ci si pone non è tattico ma sostanziale: ogni determinazione presente in quei testi (che andrebbero letti e diffusi prima ancora di commentarli!) è una bomba ad orologeria per i lavoratori di tutto il Paese, per tutte le categorie, per chi un lavoro c’è l’ha o lo ha perso.
La risposta deve essere politica, sindacale e culturale. E deve essere di tutti. Non si può lasciare ai soli lavoratori della Fiat sotto ricatto o ai soli lavoratori metalmeccanici l’onere di una battaglia che investe l’intero mondo del lavoro. Perché il nuovo quadro ci propone in termini drammatici il tema della capacità di governare le trasformazioni economiche e produttive, in un sistema globale, senza ridurre tutele e diritti, ma anzi ampliandoli ed innovandoli. Che è poi la sfida che non da oggi ha di fronte il movimento sindacale e la sinistra politica e sociale in Europa e nel nostro Paese.
Vengono cioè al pettine nodi strutturali del nostro sistema produttivo, sociale e delle relazioni industriali; nodi che il manager Fiat disvela brutalmente ma certo non ha generato lui. L ’ultimo congresso della CGIL non è stato in grado di affrontare questo terreno di analisi e proposta, e le contraddizioni si ripropongono oggi in tutta la loro drammaticità. Tutti siamo chiamati ad un salto di qualità.
Se infatti l’accordo di Mirafiori dimostra l’inadeguatezza della recente riforma del modello contrattuale, che già è costata ai lavoratori perdita di salario reale (oltre il 40% dell’inflazione dell’ultimo anno è legata ai costi dei beni energetici) e la possibile derogabilità di numerosi istituti contrattuali fondamentali, esso è soprattutto la prova di come il tema di garantire contratti collettivi realmente erga omnes – oggi anche indipendentemente dall’adesione o meno a questa o quella associazione datoriale – è interamente davanti a noi. Che se un bilancio va fatto, esso deve essere complessivo e riguardare un’intera fase della nostra azione sindacale per cui tutti siamo chiamati ad un di più di iniziativa, guardando alla situazione nazionale, ma soprattutto europea. E’ il tema di come costruire una vera Europa sociale e politica che indirizza politiche industriali e occupazionali valorizzando la dimensione della cittadinanza; è il tema dei contratti collettivi di lavoro che devono avere sempre più dimensione sovra nazionale con reali cessioni di sovranità da parte delle centrali sindacali nazionali. E’ insomma il tema di quale modello di sviluppo su scala continentale e globale, premessa per riattivare una mobilità sociale verso l’alto per tutte le fasce più deboli della società. E’ il tema di cosa si intende per produttività: perché in Italia è calata la produttività complessiva, ma non quella del fattore lavoro (dati Banca centrale europea rapporto 2010). E’ questo nessuno lo dice, accettando un terreno di confronto in gran parte falso. I lavoratori italiani sono tra i più produttivi a livello Europeo, lavorano di più in termini quantitativi e temporali dei loro colleghi tedeschi, francesi ed inglesi, il loro orario di lavoro è superiore mediamente di 3 ore settimanali. La produttività complessiva è minore, perché minore è il contenuto tecnologico e di innovazione presente nella struttura produttiva e nel ciclo dei prodotti. La produttività del capitale è infatti inferiore del 35% alla media europea e questo produce un costo del lavoro per unità di prodotto relativamente più alto. Detta in poche parole: si sfrutta il lavoro di più in termini proporzionali perché costa meno e non si investe in nuovi macchinari, in innovazione di prodotto e processo. La produttività da investimenti mancati e non fatti (magari con le risorse dirottate in beni finanziari, immobiliari o in stipendi ai manager superiori anche mille volte rispetto a quelli dei propri dipendenti) è il tema vero ed è – in sintesi – il tema di una competizione basata sulla qualità e sul valore aggiunto. Il caso Fiat è emblematico: si concorre non con il centro ricerca giapponese per i nuovi materiali o con i laboratori di design tedesco; si compete con il costo del lavoro dei serbi o dei polacchi.
La crisi oggi ha quindi già portato i “barbari ben oltre la porta di casa”: ben 3 milioni di italiani sono sotto la soglia di povertà (+15% negli ultimi due anni) e 7 sono prossimi a quella di povertà relativa (+19%); la disoccupazione giovanile ha raggiunto la cifra record del 30%; centinaia di migliaia di lavoratori precari hanno perso il posto di lavoro nelle aziende private e nelle pubbliche amministrazioni, dopo aver consentito guadagni stratosferici o il mantenimento di servizi essenziali di pubblica utilità. Migliaia di giovani sono oggi condannati ad un’esistenza di precarietà esistenziale. Di questo sono ben consapevoli gli stessi studenti che, in moltissimi, hanno colto un legame evidente tra la riforma Gelmini, l’aumento delle tasse universitarie e un mercato del lavoro che li consegna ad un sistema produttivo e sociale ingiusto. Oltre 200 mila dipendenti a tempo indeterminato hanno perso il posto di lavoro, godendo esclusivamente e per soli pochi mesi dell’indennità di disoccupazione e altre centinaia di migliaia di loro hanno subito pesanti riduzioni salariali a seguito degli ammortizzatori sociali; 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici rimarranno per i prossimi anni privi di un rinnovo contrattuale; milioni di lavoratori e pensionati pagano la crisi con una riduzione evidente della loro capacità di spesa, con un fisco che grava su di loro per oltre l’80% del gettito e con una riduzione evidente dei servizi sociali; il welfare locale, già pesantemente “falciato” dai tagli nel 2008 e 2009, si ridurrà ulteriormente quest’anno, colpendo le famiglie più povere, gli anziani e i soggetti socialmente più deboli.
A tutto ciò si somma l’attacco alla democrazia, al diritto al dissenso, allo stesso sistema di rappresentanza collettiva, mettendo in discussione la funzione dei corpi intermedi (la stessa Confindustria, dopo l’uscita Fiat e la prossima uscita di Fincantieri, dovrebbe prendere atto che una volta intrapresa la strade delle deroghe, vi è sempre qualcuno disposto a fare di più!) e la possibilità per i lavoratori di decidere da chi farsi rappresentare.
Siamo alla democrazia come farsa, al referendum usato come clava e ricatto, al riconoscimento del sindacato solo quando si fa garante verso l’azienda e controllore dei lavoratori. In un momento in cui la democrazia è minacciata dai continui attacchi alla libertà di informazione e al pluralismo culturale, in cui i partiti politici soffrono di una crisi di rappresentatività senza precedenti, quello che si delinea è un vero e proprio modello corporativo, reazionario e autoritario che insegue un’idea povera di sviluppo e dove la libera organizzazione e dialettica tra idee e interessi diversi non è vista come il sale della democrazia moderna, ma un problema da risolvere. Siamo preoccupati dell’involuzione che questo comporta per la stesse CISL e UIL e le sue categorie, prossime - qualora si generalizzasse tale logica – ad una vera e propria mutazione genetica dove la rappresentanza si costruisce fuori dai luoghi di lavoro (enti bilaterali) o esclusivamente tramite riconoscimento delle controparti. Una mutazione con cui dovremmo concretamente fare i conti in termini sia rivendicativi che di pratica negoziale.
C’è, allora, l’inderogabile necessità di dare una lettura omogenea agli avvenimenti, non si può proseguire nel ritenere gli accadimenti e le scelte di imprese, sindacati e governo eventi caotici e scollegati. Non possiamo ritenere l’agire di Marchionne scollegato dalle scelte ideologiche presenti nel collegato lavoro. L’annullare con una decadenza le possibili rivendicazioni dei precari sa di ritorno agli anni cinquanta. La riduzione dei finanziamenti alla cultura sono atto gravissimo nei confronti di un intero sistema, atto che non tocca solo principi fondamentali come la libertà di espressione ma anche lo sviluppo tecnologico ed economico.
La nostra categoria è toccata pesantemente dai molti provvedimenti del governo, ciò che i rappresentati da Slc stanno subendo o rischiano di subire (pensiamo al mondo dei call center o degli appalti) non è molto diverso da ciò che subiscono oggi i metalmeccanici della Fiat.
Serve allora riscoprire il significato profondo del concetto di solidarietà.
Serve una discussione dentro la CGIL senza rinchiudersi in facili recinti, burocratismi o dissapori personali, con l’obiettivo di fare uno sforzo comune da parte di tutti e ricercare una risposta all’altezza della fase nuova, inedita e rischiosa, che il Paese sta attraversando.
Serve contrastare l’accordo di Mirafiori delineando al contempo una proposta chiara, precisa, fatta di pochi punti, con l’ambizione di incidere e non di “testimoniare”: riconquista di un modello contrattuale valido per tutti i lavoratori, dando piena attuazione agli articoli 39, 40 e 41 della Costituzione e prevedendo un salario minimo legale o un reddito di cittadinanza eventualmente anche per legge, con diritti individuali indisponibili a tutte le parti collettive; di conseguenza il riconoscimento di un sistema di reale rappresentatività e reale democrazia dei lavoratori, valido per tutte le imprese, che permetta sempre – in caso di divisioni tra sindacati rappresentativi o anche se richiesto da una minoranza di lavoratori – di dare, tramite referendum, l’ultima parola ai diretti interessati al singolo accordo. Occorre una manovra straordinaria per la stabilizzazione dei precari nelle pubbliche amministrazioni, nella scuola, università e ricerca; il collegato lavoro va “smontato” con una forte e coordinata azione sia contrattuale (nazionale e aziendale) che vertenziale, con l’obbiettivo di giungere ad una riforma complessiva del mercato del lavoro che riduca tipologie atipiche e il dumping salariale e normativo che queste esercitano nei confronti del contratto a tempo indeterminato. Occorre una riforma contrattuale e fiscale che restituisca potere d’acquisto a lavoratori e pensionati, con una patrimoniale cui entrate vanno finalizzate al sostegno dei redditi.
Su questo la CGIL deve avviare da subito una campagna di mobilitazione in tutti i luoghi di lavoro, fare una vera e proprio campagna di informazione contro la strategia del silenzio e il “chiacchiericcio discorsivo” operato dai grandi media, e tornare protagonista dell’interlocuzione con i partiti politici, la società civile, i movimenti - a partire da quello degli studenti - dichiarando già ora come l’approdo di tale percorso rivendicativo sia una giornata di sciopero generale. Da preparare bene, da far diventare un momento di protesta e proposta che parli all’intero paese, all’Italia migliore, ai giovani. Questo a partire dalla giornata di mobilitazione e di lotta proclamata già per il 28 gennaio prossimo dai compagni della FIOM, che deve per tanto inserirsi in questo percorso.
Una volta avremmo detto “socialismo o barbarie” oggi, più moderatamente, ci accontenteremmo di “diritti minimi e libertà di decidere o barbarie”.
Alessandro Genovesi – Segretario Nazionale SLC-CGIL ed esponente nazionale della minoranza “LA CGIL CHE VOGLIAMO”.
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